Ho imparato l’arte della cucina da
mia madre. Ed diventata per me una
grande passione, dice Al Bano. Mia madre Jolanda è la tradizione, mentre io
sono l’evoluzione: alle ricette tipiche della mia terra ho aggiunto sapori e
profumi che ho scoperto nei viaggi in giro per il mondo. Ma sempre, in
qualsiasi piatto, cerco la semplicità del cibo di quando ero bambino. La
passione di Al Bano per la cucina si è ora condensata in un libro, uscito l’11
novembre, dal titolo La cucina del sole(Mondadori), scritto con l’aiuto della
madre Jolanda. <<Non è soltanto un libro di ricette>>, spiega il
cantante. Parlare di cucina è il pretesto per saccheggiare lo scrigno dei
ricordi alla ricerca di aneddoti, emozioni, storie, incontri, consigli: il
tutto legato alla passione per il mangiare semplice e sano. Incontriamo Al Bano
nella sua tenuta di Cellino San Marco, mentre sta finendo di preparare le nuove
puntate della trasmissione Così lontani, così vicini, in onda su Raiuno dal 13
novembre. In procinto di partire per una serie di concerti in Romania, Russia e
Bielorussia, Al Bano ci racconta, in quest’intervista esclusiva, dei sapori
della sua infanzia e dell’amore per la cucina. <<Un buon piatto è come
una bella canzone>>, dice. Entrambi sanno emozionare, possono far volare
fantasia. Secondo me, chiunque faccia musica è in grado di cavarsela bene anche
tra i fornelli.
Intervista
Domanda. Com’era il cibo di quando lei era bambino?
Risposta. Prima di tutto, era poco. Non c’era molto da mangiare. Ma nessuno
faceva la fame: c’era povertà, ma non miseria, e le famiglie contadine si
aiutavano l’una con l’altra. Quello che si mangiava era genuino, vivevamo di
ciò che dava la terra. Ricordo che andavamo nei campi a raccogliere le erbe
selvatiche per poi cucinarle. O le mangiavamo crude, messe su un pezzo di pane
e condite con olio di oliva. Tutto era di una purezza assoluta. Allora non
c’era inquinamento e si poteva bere anche l’acqua piovana. Dopo un temporale,
mi chinavo a bere l’acqua che si era raccolta nei solchi lasciati a terra dai
carretti. Era buonissima.
Domanda. Che cosa si mangiava?
Risposta. Pomodori, “cicureddhe”, cioè una varietà di cicoria selvatica, e i
legumi che rappresentavano “la carne” dei poveri. La carne vera e propria si
vedeva di rado, solo quando la vendita del raccolto portava in casa qualche
soldo in più. Il cibo quotidiano, soprattutto di chi lavorava in campagna, era
la “frisella”, un pane tradizionale, molto duro, che si conservava anche per
mesi. Si bagnava con un po’ d’acqua per ammorbidirla e, poi, sopra, olio, sale
e un pomodoro spezzettato. Erano ottime anche le “culozze” di pane. Si tagliava
la parte finale delle pagnotte, che era conica, la si svuotava della mollica e
la si riempiva con olio, peperoncini, capperi e pomodori.
Domanda. E la pasta?
Risposta. Era il piatto della domenica, quando tutta la famiglia si riuniva
attorno alla tavola. Le donne cominciavano il giorno prima a impastare per
preparare orecchiette, “pizzicarieddhi” e “lavanè”, che sono una specie di
tagliatelle. La pasta si mangiava rigorosamente con il sugo di pomodoro,
anch’esso fatto in casa. E chi aveva qualche soldo, ci metteva dentro delle
polpette.
Domanda. Quand’era bambino, per che cosa andava matto?
Risposta. Era il piatto della
domenica, quando tutta la famiglia si riuniva attorno alla tavola. Le donne cominciavano il
giorno prima a impastare per preparare le orecchiette, “pizzicarieddhi” e “lavàne”,
che sono una specie di tagliatelle. La pasta si mangiava rigorosamente con il
sugo di pomodoro, anch’esso fatto in casa. E chi aveva qualche soldo, ci
metteva dentro delle polpette.
Domanda. Quand’era bambino, per che
cosa andava matto?
Risposta. Prima di tutto per i “pummitori
scattati”. Sono una varietà di pomodori di colore giallo che si raccolgono in
estate, ma che per tutto l’inverno si conservavano appesi in mazzetti. Si preparavano
degli spiedini, usando pomodori, alloro, cipolla, finocchio e sedano; li si
metteva sulla brace finché non li sentiva scoppiettare(da qui il loro nome) e,
infine, li si condiva con olio e sale. Poi, mi piacevano i ceci arrostiti.
Domanda. Come si preparavano?
Risposta. Si mettevano i ceci in un
pentolino, accanto alle fiamme del camino, e si arrostivano. Rappresentavano la
cena delle sere invernali, quando la famiglia era riunita affianco al fuoco. Un’altra
mia passione erano i fichi con le mandorle. Si facevano seccare al sole i
fioroni, cioè i fichi che maturano a inizio estate. In ognuno, si metteva
dentro una mandorla e si pigiavano l’uno su l’altro in una giara con foglie di
alloro. In inverno, era una merenda favolosa.
Domanda. Lei ama molto le cozze…
Risposta. Ho imparato da bambino a
mangiarle crude. Erano il cibo di giugno, quando si falciava il grano. Mio padre
comprava le cozze e le appendeva nel pozzo, assieme al bottiglione di vino, per
tenerle al fresco. A mezzogiorno, si aprivano e si mangiavano crude. Io oggi
preparo una zuppa di cozze ormai famosa che cucino per gli amici. Gérard
Depardieu, quando venne a trovarmi, ne ha mangiato sei piatti!.
Domanda. E’ il vino?
Risposta. Ogni famiglia faceva il
proprio vino e poi se lo scambiavano, perché, anche se le vigne erano nella
stessa zona, i metodi di vinificare erano diversi. Un giorno dissi a mio padre
che gli avrei fatto un’azienda vinicola. Mi disse: “Sogni! Sogni! La realtà è
dura!”. Poi, nel 1973, gli diedi la prima bottiglia della mia azienda, un vino
che avevo chiamato come lui, “Don Carmelo”. Mio padre aveva gli occhi lucidi. Mi
disse: “Uè! Ma puerti na capu tosta come li ciucci!(Hai la testa dura come i
somari!).
Domanda. Nel suo libro ci sono
anche ricette.
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