«A OTTO ANNI MIO PADRE
COMBINÒIL MIOMATRIMONIO
E M’IMPOSE ILBURQA», CI DICE
AMALBASHA. «NONERALA
VITACHEVOLEVO.ASALVARMI
È STATOUNPARENTECHE
VIVEVA NEL VOSTRO PAESE»
Il suo nome vuol dire speranza. Eppure
di speranze Amal Basha, nata
52 anni fa in Yemen, sembrava destinata
ad averne ben poche. A otto anni,
suo padre l’aveva promessa in sposa e
le aveva imposto il burqa. Ma la vita
riserva dei fuori programma. E pochi
giorni fa Amal è stata insignita del titolo
di «donna araba dell’anno» nella
sfavillante serata di gala dei Takreem
Awards, prestigioso premio al meglio
della cultura, della scienza, dell’innovazione
e della società civile araba (vedi
box). Quel che è successo nel mezzo
ce lo racconta lei, all’indomani della
premiazione che quest’anno si è tenuta
in Marocco. Dopo essersi rifugiata
nel salottino viola del Selman hotel di
Marrakech, seminando network e giornali
arabi, davanti a un caffè che non
berrà, si accende una sigaretta senza
chiedere e apre la porta ai ricordi.
«Quel velo integrale non lo sopportavo.
Mi toglieva il respiro, mi faceva
vedere il mondo in bianco e nero. Ma
mio padre non voleva sentire ragione.
Dovevo assecondarlo. Quando uscivo
però me lo toglievo e lo nascondevo».
RIBELLIONE E ISTRUZIONE
«Ero una ribelle, mi piaceva leggere,
andare al cinema, giocare a calcio. E
sognavo di continuare gli studi, viaggiare,
conoscere il mondo», ricorda
Amal. La famiglia però ha altri progetti
per lei. C’è un promesso sposo,
un ragazzo di una decina di anni più
grande, che attende che lei sbocci.
Questione di poco e dovrà abbandonare
la scuola per diventare moglie e
madre a tempo pieno. Amal non vuole,
ma la sua resistenza è solitaria. Finché
a 11 anni trova un inaspettato alleato.
«Uno zio che aveva studiato e vissuto
in Italia parlò con mio padre. Gli disse:
“Tua figlia è una ragazza brillante.
Perché la soffochi sotto il niqab?”. Non
fu facile, ma alla fine Amal
ottenne d’indossare solo l’hijab, il velo che
copre i capelli e lascia libero il volto.
Era stata la sua prima vittoria, quella
che l’aveva convinta che lottando poteva
ottenere quello che voleva. Ma la
battaglia per l’emancipazione sarebbe
stata ancora lunga. «La mia famiglia
aveva atteso che compissi 16 anni
prima di onorare l’impegno del matrimonio.
Non avevo potuto sottrarmi
a quelle nozze, ma avevo ottenuto di
non dovere abbandonare
la scuola. L’accordo era
che avrei comunque preso il
diploma». Amal rimane subito
incinta e a 17 anni nasce il suo primo
figlio. Poche settimane dopo decide di
divorziare. «Avevo un unico obiettivo:
studiare e lavorare nel mondo della
diplomazia», racconta. La famiglia si
oppone, ma lei non molla. E ancora
una volta la spunta. È la svolta.
«Mia madre si è presa cura del mio
bambino e io mi sono iscritta all’università
di Sanaa. Poi ho proseguito gli
studi all’università americana del Cairo,
laurendomi in Scienze politiche. Lì
la mia ribellione si è rafforzata nella
conoscenza», spiega. Sono gli Anni
80. Mentre in Occidente inizia l’era
dell’edonismo e degli yuppie, Amal
viene a contatto con le idee femministe,
partecipa a seminari e dibattiti,
inizia a mettere la sua battaglia per
l’emancipazione a servizio di una causa
più grande, quella della democrazia
e dei diritti civili. S’innamora di un
attivista politico, che diventa
il suo secondo marito.
Hanno due figli,
Amal lavora come consulente del governo
yemenita edell’Onu. Tutto
sembra appianato,quando
accade il peggio: «In un mese ho
perso mio marito per un infarto e la
mia bambina di duemesi». Impossibile non
pensare che la tristezza che
vela il suo sguardo non sia legata a
queste tragedie. «Per sopravvivere»,
prosegue Amal, «sono andata lontano.
Mi sono trasferita in Inghilterra». Lì fa
un master e torna in trincea. A difendere
le bambine dai matrimoni precoci
e le donne dalle violenze. A battersi
contro la tortura e per la democrazia,
in Yemen e in tutto il mondo arabo.
Un’attività instancabile, attraverso
ong e agenzie internazionali.
Diventa bersaglio di minacce e intimidazioni.
Che hanno l’unico risultato di rafforzare
la sua determinazione. Perché, dice
Amal, «solo donne più istruite e consapevoli
potranno essere artefici del
loro destino e quello dei loro figli. E
solo così potremo battere l’estremismo
e il terrorismo».
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